Non è importante credere in certe cose, perché accadono comunque.
Puoi anche sforzarti di pensare che sia impossibile e trovare un senso logico o scientifico, ma è solo energia sprecata.
Quella che sto per raccontare è la storia di una donna, ma potrebbe essere la storia di tante donne, diciamo che è l’incontro che tutte facciamo prima o poi, e cioè l’incontro con la personificazione della domanda… CHI SONO?
La nostra protagonista è Margherita, una donna che fuggiva a gambe levate ogni volta che intravedeva il fumoso volto del “chi sono”, finché non ha più potuto scappare e si è arresa a questa scoperta…
Lascio la parola a Margherita, buona lettura!
“Ero una donna normale, che viveva una vita normale.
Scrivevo racconti per un giornale locale, la rubrica si chiamava: Racconti del Mistero. Il direttore pretese uno pseudonimo perché a nessuno interessavano le storie scritte dall’anonima Margherita, invece, Miss Darkness aveva molti fans.
Adoravo il mio lavoro per tanti motivi. Primo fra tutti, essendo una creatrice instancabile, sentivo il bisogno di raccontare storie come si sente un bisogno fisico, e poi, uscire di casa la mattina, entrare in redazione nel mio buco d’ufficio e dimenticare il mio nome, scordare chi ero e poter essere una persona diversa ogni giorno, era impagabile. La mia vera identità diventava superflua e potevo essere chi volevo. Immedesimarmi era come respirare.
Tuttavia, mi successe un fatto inconsueto. La mia creatività si arrestò. La nuova storia non partiva, mi sentivo bloccata per la prima volta e, nel contempo, continuavo a essere perseguitata da un buffo signore col panciotto e una bombetta verde. Pareva uscito da un racconto inglese dell’800.
Il suo modo di perseguitarmi era solamente nell’immaginario: quando chiudevo gli occhi o nei sogni ma non solo, a volte lo vedevo riflesso nella vetrina di un negozio, altre mi sembrava di scorgerlo tra la folla dell’ora di punta. Estraeva il suo orologio da taschino e me lo indicava, come se volesse avvisarmi di un ritardo, una specie di Bianconiglio in sembianze umane.
Dopo alcuni giorni, avvilita, cestinai le bozze sconclusionate e, nel foglio bianco della schermata, digitai in grassetto e a caratteri maiuscoli: MISTER GREEN HAT.
Era ormai pomeriggio inoltrato, fuori scuriva già. La giornata lavorativa era terminata e i miei colleghi indossavano il cappotto e uscivano in fretta.
Rimasi sola.
Ero sempre molto rigorosa negli orari, specie la sera quando dovevo tornare a casa. Alle 17:15, con la puntualità di un orologio svizzero, ero al supermercato e alle 18.00 già davanti ai fornelli della mia cucina. Perché?
Perché avevo due figli di 12 e 14 anni in pieno sviluppo fisico e in fase preadolescenziale, un marito, una madre anziana e il suo cane obeso con problemi cardiaci.
E tutti mi aspettavano per la cena.
Tutti capaci di intendere e di volere e con capacità fisiche nella norma, ma nessuno di loro si degnava di mettere una pentola sul fuoco. Era compito mio, punto e basta. Come era compito mio pulire casa, fare il bucato, portare fuori il cane Bobo e naturalmente preparare i pasti e lavare i piatti.
Io assolvevo i miei compiti senza mai replicare. Il senso di colpa aveva sempre la meglio, su tutto. E la mia famiglia aveva una dote speciale nell’alimentarlo. Il mio lavoro non era un vero lavoro ma un passatempo, diceva mio marito. Poi c’era mia madre e Bobo che rincaravano la dose: «Non potresti trovarti un vero lavoro? Conosco un’amica che ti darebbe volentieri un impiego alla fabbrica tessile dove ho lavorato fino alla pensione. Oppure potresti stare a casa e portare fuori Bobo più spesso, poverino!» ed ecco che i sensi di colpa aumentavano a dismisura.
Ma quella sera, una forza soprannaturale e inspiegabile mi trattenne nel mio ufficio.
Tutto era cominciato semplicemente scrivendo quel nome. Il cuore mi martellava nelle orecchie, la pelle era coperta di brividi e avevo il fiatone.
Sentivo la presenza di Mister Green Hat senza vederlo, come si sente il vento.
Sotto il nome scrissi: «Chi sei?»
E il vento mi rispose. Non era un linguaggio articolato ma sussurrato al mio pensiero, avvertito come un’idea. E scrissi la risposta suggerita: «Non chiederti chi sono io, ma chi sei tu e per quanto tempo rimarrai nascosta.»
Rimasi con le dita sospese sulla tastiera, colpita nel centro.
In quel momento mi accorsi dei rischi che stavo correndo. Il rischio di scoprire cose che mi avrebbero cambiata per sempre. Una parte di me, forse la più importante e la più soffocata, buttò fuori tutta la solitudine, la frustrazione e gli anni di prigionia come un torrente in piena dopo il disgelo dei ghiacci invernali. Sentivo sgretolare gli argini del controllo. Ogni filtro venne strappato con prepotenza e le mie dita volarono sulla tastiera, scrivendo senza sosta la conversazione con Mister Green Hat, il qual era apparso vicino alla mia scrivania e controllava, come un professore severo, ogni sillaba che scrivevo.
«In realtà io sto tanto bene nascosta. Questo ufficio è la mia isola felice.»
«Scriverai storie del mistero per sempre? E tornerai a casa puntuale per servire i tuoi familiari, per sempre?»
Quel per sempre era scomodo e fastidioso…